Monday 24 April 2017

Doctor Strange


C'è Benedict Cumberbatch, la magia, i frattali, una dose giusta ma non eccessiva di battute, le arti marziali e anche un po' di imaging diagnostico.
Poteva forse non piacermi?
Doctor Strange è fatto bene, equilibrato, unisce attori con i controcoglioni a effetti speciali niente male, regala immagini di Kathmandu, Londra e New York (anche Hong Kong ma li non ci son stata, quindi mi toccano meno corde del cuore) e ci fa anche vedere un attimo Thor con la birra in auto refill.
Ora che so che Dr Stange compare in Thor - Ragnanok, sì che non vedo l'ora che esca.
L'inizio del film è perfetto, con le inquadrature che si spostano dalle mani agli occhi blu vitrei di un Cumberbatch completamente assorbito nel suo ruolo di semidio agghindato da neurochirurgo.
Poi il delirio di onnipotenza, alla guida spericolata del suo bolide, mentre analizza immagini MRI di cervelli. Infine la peggior punizione: l'incidente, che non lo uccide, ma gli rovina le mani, che sono la sua forza. E dove la scienza non può, può la magia.
- È un film, mi raccomando. È un film. Nella vita vera se siete malati andate all'ospedale e non dal mago, per favore -
Il dottor professore ci mette un po' ad abbandonare la strada del raziocinio, ma, abituato come è a credere al dato sperimentale, non può che restare intrippato nel momento in cui l'Ancient One gli mostra la dimensione astrale e il multiverso. Non è fede, è curiosità scientifica. Il pungolo che prende tutti noi quando si incoccia in qualcosa che non si sa. È la brama di sapere tutto, di capire tutto, di mettere tutto in fila. Lui inizia così, per lo stesso motivo per cui aveva scelto medicina molti anni prima.
Poi, con [...] study and practice, years of it [...] capisce che tutto non si può capire, che il suo complesso edonistico lo ha tenuto lontano dalla grandezza, che [...] it's not about you [...] e tutti, forse, siamo qui per servire qualcosa di più grande delle nostre misere vite, che non è Dio, almeno non per me, ma la conoscenza.
La morte è quello che da senso alle nostre vite? Forse, ma io non c'ho un buon rapporto, e sono in buona compagnia. L'Ancient One ha vissuto vari secoli, non sempre mantenendo la fedina penale immacolata, eppure quando si trova davanti alla Nera Signora, allunga l'ultimo istante in minuti pur di vedere per l'ultima volta la neve. Il fulmine che spacca il cielo nero di New York al rallentatore è una delle miglior immagini che abbia visto al cinema quest'anno.
Poi i buoni vincono, forse, almeno per il momento, ma quello conta poco - ci si aspettava. Conta il sacrificio, la volontà di morire all'infinito in un loop temporale eterno, pur di salvare il genere umano. In questo si incarna la vera evoluzione del personaggio, che un'ora e mezzo prima, all'inizio del film, aveva deciso di non intervenire su una sedicenne con glioma per non rovinare il suo perfect record.
Il cast è ottimo, come al solito. Il MCU ha un dono speciale nel scegliere attori perfetti nei loro ruoli, anche perché a ognuno di loro viene lasciato il tratto distintivo proprio della loro cultura di origine. Ecco che Thor ha il retrogusto del cazzone australiano, Iron Man i deliri di onnipotenza dell'imprenditore americano e Dr Strange è inglese, nonostante l'accento newyorkese. BC parla in americano, ma il suo humor resta british. "you should have stolen the whole book, the warnings come after the spell". 
Il film ha sempre perfettamente senso senza nemmeno un buco di scrittura? Forse no. Di solito, non si capisce come mai facciano entrare Strange conciato in quel modo in sala operatoria. Ma questo è forse l'unico pelo nell'uovo che mi va di trovare - loro ne hanno trovati vari -, perché anche nel suo scontro con Kaecilius, da cui esce vivo a differenza del protettore del Sanctum di NY, non è Strange a vincere, ma il Clock of Levitation, che di Strange ha visto il potenziale e lo ha scelto come suo mago.
Il film finisce con Dr Strange, in costume completo, che guarda fuori dal rosone del Sanctum di NY di cui è stato nominato protettore e dove si è stabilito per continuare con gli anni di studio e pratica.
Ci saranno altre battaglie, ma il mondo è pronto - ed io anche, sul divano, con la mia La Croix in attesa di Infinity war.


Thursday 20 April 2017

Girls


La storia di quattro amiche e le loro vite in New York City. Suona familiare? Lo è.
Centinaia di parole sono state spese sulle similitudini e differenze fra Sex and The City e Girls, lo show scritto, diretto e interpretato da Lena Durham che è finito domenica sera.
Similitudini: quattro amiche e le loro avventure nella grande mela.
Differenze: tutto il resto.
Girls non è un'inno all'amicizia che vince su tutto, non è un inno a New York - infatti è ambientato a Brooklyn -, non è un inno all'amore che trionfa - almeno non nel senso tradizionale -, non c'è il principe azzurro - a onor del vero il principe c'ha provato, ma ha perso il mantello nell'arco di una puntata di 20 minuti -, non ci sono le battute divertenti - o meglio ci sono ma non fanno tanto ridere-.
SATC era una commedia arguta basata sulla vita di quattro trettenni del ceto medio-alto che se la godono a Manhattan fra alterne vicende, moda e amori. C'era Manhattan e c'era il sesso, parecchio, sopratutto tramite Samantha, sempre in chiave o romantica o divertente. Ci sono state lacrime, ma ci sono sempre stati l'eureka, la resa dei conti e il lieto fine.
In Girls, quattro ragazze fresche di college si ritrovano a intrecciare le proprie esistenze per decidere, dopo sei anni, che alla fine non sono poi così amiche e che anzi, fondamentalmente, stanno meglio senza frequentarsi. Girls parla della generazione dei Millennial, cresciuta con l'idea di essere speciale e di meritarsi successo. "Entaitlement" e' la parola corretta in inglese, avere il diritto di ottentere qualcosa.
"I am the voice of my generation, or at least a voice or a generation".
Girls parla di come quell'idea viene distrutta una volta che, dopo il college, si passa a doversela cavare da soli e si scopre, non senza stupore, che nessuno ti deve niente e che anzi la via del successo, inteso nel senso di realizzazione personale, è lunga e faticosa.
Non è la mia generazione, io sono una Gen-X e, come viene detto in uno dei migliori scambi dello show, noi, quando ci dicevano che eravamo speciali, avevamo almeno l'intelligenza di capire che o ci stavano prendendo per il culo o ci ritenevano deficienti.
Non è la mia generazione per cui non posso valutare su un piano personale come è stata trasposta sul piccolo schermo, ma il quadro che ne esce è cupo: disillusione, depressione, sesso - tanto - per tutti i motivi possibili  - amore, attrazione, autoaffermazione, noia, divertimento. Le scene di sesso mettono per lo più a disagio, così come molte conversazioni e situazioni, ma lo spaccato di vita è così realistico che lo show si guarda bene e volentieri. Il finale è esattamente quello che doveva essere, solo un momento nel continuum, senza catarsi, chiusura, conclusione alcuna. C'è solo una nota positiva, sui titoli di coda, che segna per Hannah, protagonista indiscussa nel suo abissale egocentrismo, l'inizio - alla buon ora (n.d.r.) - della vita adulta.
Il massimo del lieto fine che ci si poteva aspettare da questo show e dalla vita in genere.


Monday 3 April 2017

The Young Pope


The Young Pope.png

Sorrentino fin dal primo fotogramma. Inquadrature storte, effetti speciali di scomposizione dell'immagine, immagini rotanti. Dialoghi lenti. Primi piani. Ingrandimenti degli occhi. 
Se uno ama Sorrentino, gli bastera' quello. Se uno odia Sorrentino, si sfavera' fin dai titoli di inizio del primo episodio. Se uno, come me, e' intrigato da Sorrentino, ma lo trova insostenibilmente pretenzioso e autocelebrativo, volera' sulla prima stagione di "The Young Pope" a fasi alterne di autentico piacere e occhi alzati al cielo in moti di fastidio.
Ah poi c'e' la storia.
La storia e' graziosa.
Per apprezzarla al pieno credo uno debba essere italiano. Se sei italiano che vive (o ha vissuto) in America ancora meglio, perche' riesci a apprezzare a pieno le sfumatore delle due culture e, a tratti, la loro inconcilibilita'. La narrativa e' interessante, anche se  forse un po' scontata. Pio XIII (Lenny Belardo, Jude Law) parte cosi' alla grande come il big bad che era assolutamente ovvio che sarebbe stato sviluppato nella direzione di una potenziale redenzione. Anche la back story un po' scontata: Lenny e' cosi' altisonantemente conservatore perche' e' stato abbandonato dai genitori hippie. Diciamo che non e' la narrativa il motivo per cui vale la pena di guardare lo show, ma sono i dettagli e il personaggi secondari a partire da un magnifico Silvio Orlando nei panni del Cardinal Voiello, con tanto di accento terribile e maglia del Napoli. Ho apprezzato anche come sono state rese italianate cliche', tipo il caso del ciarlatano Tonino Pettola, gli inciuci di palazzo e le feste della Roma di altoborgo, che tanto ricordano "La Grande Bellezza".
Trovo che non valga la pena di una seconda stagione, almeno che non ci siano in palio ideone della madonna. Non era nato per avere un prosieguo e si percepisce abbastanza bene dal cliffhanger posticcio. Spero che non ci si riduca alla totale redenzione di Pio XIII, post incontro con i genitori, ma suppongo Sorrentino sia un tipo troppo in gamba per indulgere a tale faciloneria, anche nell'ottica di lavorare per una emittente statunitense e non di andare a Cannes e di vincere un altro Oscar.